Intercettazioni: Chiappe, il ddl Alfano ignora la responsabilità del giornalista
AUDIZIONE DELL’UNCI IN COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL SENATO
Pubblichiamo l’intervento di Maria Francesca Chiappe nell’audizione
22 luglio 2009 - Con le modifiche introdotte dalla Camera al ddl Alfano, resta sostanzialmente il regime attuale per tutti gli atti giudiziari tranne uno: le intercettazioni (ambientali, telefoniche, telematiche). E non mi scandalizza che ci sia una differenza: quando si procede con un atto giudiziario la regola è , dovrebbe essere, che di tutte le cose che si acquisiscono al procedimento i magistrati facciano una cernita e conservino soltanto ciò che è rilevante per l’indagine, il resto no. Ma con le intercettazioni questo discorso è complicato perché si mette sotto intercettazione per molti giorni, settimane, mesi un’utenza telefonica e non si registrano solo le conversazioni che interessano l’indagine ma tutto, dunque restano impigliate negli atti giudiziari anche le chiacchiere private di un persona, anzi di due, forse anche di tre, se i due al telefono parlano di terze persone. E siccome in Italia non si può distinguere al momento della registrazione fra quel che rileva e quello che non rileva ecco che serve un filtro, e questo filtro può essere fatto soltanto in un momento successivo. Quindi, far coincidere la divulgabilità del contenuto delle intercettazioni col deposito nella segreteria del pm significa rendere tutto pubblicabile prima che si proceda al vaglio del materiale. E’ dunque condivisibile, perlomeno si capisce la ratio della novità introdotta dal ddl Alfano che rende obbligatoria l’udienza-filtro davanti al tribunale per la scelta delle intercettazioni da conservare. E’ tutto il resto che non è condivisibile. Le intercettazioni restano infatti non pubblicabili, seppure non più tecnicamente segrete, fino all’udienza preliminare. Perché? Qual è la ratio di questa norma? Sono state espunte quelle che non rilevano ai fini dell’inchiesta, perché aspettare la fine dell’udienza preliminare? A questo punto la diversità di trattamento con tutti gli altri atti giudiziari non la capisco più, se non con l’intento di posticipare il più possibile il momento della pubblicazione per far scemare l’interesse dell’opinione pubblica.
E’ una legge che dice di tutelare la privacy degli estranei alle indagini e degli indagati stessi, ma io per privacy intendo il privato delle persone, non certo i medici che lucrano sulla pelle dei malati, gli imprenditori che in combutta coi banchieri rischiano di rovinare l’economia, gli arbitri e i presidenti di società che truccano il calcio.
E poi, per tutelare la privacy ci si deve comunque affidare alla deontologia professionale dei giornalisti. Mi spiego: se nell’udienza filtro giudici, pm e difensori decidono di lasciare una conversazione piccante perché quel contatto ha rilievo nel processo penale, il giornalista sarà solo con la sua coscienza, non è che pubblicherà tutto solo perché ha superato il vaglio dell’udienza filtro. Dunque l’udienza filtro non elimina il problema della privacy, quella vera, che resta sempre nella valutazione professionale del giornalista. Qui dunque il giornalista applica cioè le regole di cui tiene conto per tutti gli altri atti processuali. Faccio un esempio: agli atti di un importante processo di uno scandalo finanziario c’è un’agenda importantissima per l’accusa dove ci sono anche però una serie di appunti personalissimi e intimissimi. L’agenda è tra gli atti processuali rilevanti, ma nessun giornalista ha pubblicato il contenuto degli appunti privati e non perché una legge lo impediva, ma perché lo impediva la loro coscienza professionale. Dunque, il problema della privacy in riferimento agli atti giudiziari esiste certo per le intercettazioni ma anche per molti altri documenti, i verbali di interrogatorio, per esempio, l’esito delle perquisizioni, e come i giornalisti sono in grado di discernere che cosa abbia rilevanza sociale in tutti quei casi, non si capisce perché non debbano essere in grado di fare altrettanto in caso di conversazioni intercettate.
E questo è solo il primo punto. L’altro è legato alla sanzione per chi pubblica intercettazioni segrete e o delle quali sia stata ordinata, nell’udienza- filtro, la distruzione. Carcere. E non è una questione di sei mesi o tre anni, no: è proprio il principio che contestiamo. Esistono altre norme, come ad esempio quella sulla diffamazione a mezzo stampa, che prevedono pene severe, fino a sei anni di carcere se la diffamazione è con attribuzione di un fatto determinato e sebbene siamo pur sempre tra i cosiddetti reati di opinione, è sicuro che nel mondo dominato dai mass media sto facendo un danno, e gravissimo, a una persona con un nome e un cognome nello scrivere una notizia falsa e calunniosa. Ma quale danno faccio nel pubblicare il contenuto di un atto giudiziario come le intercettazioni? Se si tratta di quelle rimaste agli atti del processo dopo l’udienza-filtro e le pubblico prima dell’udienza preliminare sto solo anticipando i tempi, il danno dov’è? E se pubblico intercettazioni penalmente irrilevanti, dunque da distruggere, ma dal contenuto socialmente o politicamente rilevante (il direttore di un quotidiano che baratta con un costruttore indagato indulgenza sul giornale con le vacanze gratis in Sardegna) perché devo andare in galera? Non sto facendo pettegolezzo ma solo il mio lavoro: ho trovato fra gli atti giudiziari una notizia e la pubblico.
E a questo proposito vorrei segnalare un rischio tutto nuovo che si corre, ed è quello, consentitemi di chiamarlo così, del pettegolezzo giudiziario, contro il quale non c’è rimedio né sanzione: quando si arriva all’udienza filtro i difensori e gli indagati avranno potuto prendere visione delle trascrizioni delle intercettazioni, quindi considerando la polizia giudiziaria e il pubblico ministero, ci sono numerose persone che conoscono il contenuto di quelle conversazioni, rilevanti e no. E se c’è qualcosa di pruriginoso circola nei corridoi e poi varca il palazzo di giustizia e diventa leggenda metropolitana. E questo potrà succedere ancor di più dopo l’udienza filtro. Sto parlando di situazioni già vissute, di fatti già successi, come la conversazione tra un noto uomo politico e un suo amico che facevano apprezzamenti sulle qualità non proprio professionali di una donna altrettanto conosciuta. Vero? Falso? Era un pettegolezzo legato a intercettazioni che nessuno ha mai visto, letto o sentito, si è detto che ne fosse stata ordinata la distruzione, eppure è diventata verità, non sui giornali o nei tg che non ne hanno neanche mai fatto accenno, ma nei discorsi degli italiani, per finire nelle gags dei comici, in teatro e in tv. Con questo non voglio dire che i giornalisti debbano pubblicare sempre e comunque tutto, ma attenzione a vietare tutto perché il rimedio può essere peggiore del male.
Ci sono distorsioni? Puniamole. Mica diciamo di no. Gli strumenti ci sono già: c’è l’Ordine professionale, rendiamolo più efficace. Ma non introduciamo per legge un sistema che modifichi radicalmente i rapporti nelle redazioni.
Sì perché in questa legge la parte più insidiosa è rappresentata da quella sulla responsabilità amministrativa, parapenale, delle società editrici: si vorrebbe estendere alle società editrici una norma pensata per punire le società per i reati commessi dai loro dipendenti in materia di corruzione, truffa, terrorismo e poi allargata anche alla sicurezza sul lavoro. Ora la si vorrebbe applicare anche alle società editrici derogando anche per gli editori al principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale. Ma nel settore dell’informazione ci si muove su un terreno completamente diverso: gli editori non sono responsabili del lavoro dei giornalisti loro dipendenti, l’unico responsabile è il direttore (ricordo l’articolo 57 del codice penale sull’omesso controllo), perfino della pubblicità, gli editori non sono responsabili neanche delle inserzioni a pagamento, i giornali sono organizzati in modo che le redazioni coi loro direttori siano autonome e dunque responsabili del prodotto giornale. E c’è un motivo: le redazioni sono autonome rispetto all’editore per garantire il diritto all’informazione.
Certo che l’editore sceglie la linea politica e la concorda col direttore responsabile ma il meccanismo che si intende introdurre è completamente diverso: perché sull’editore incombe uno strumento di pressione che lo porterà a un controllo serrato su tutto per evitare sanzioni economiche pesantissime. Quindi l’editore deve organizzare un sistema in grado di prevenire tutto e bloccare tutte le notizie che possano essere pericolose per le casse della società. La legge lo autorizza, addirittura gli impone di mettere becco nella fattura quotidiana del giornale. E se si considera che il 60 per cento della notizie riguardano le cronache nera e giudiziaria ecco che il controllo, preventivo, dell’editore diventa capillare. Non è più una questione di linea politica ma di un sistema di controllo sull’operato della redazione col totale esautoramento del direttore responsabile. Senza contare che si apre una varco: oggi la legge si applica alle intercettazioni, domani chissà.
La norma nuova che prevede una sanzione amministrativa fino a 465mila euro agli editori modifica dunque alla radice i rapporti all’interno delle redazioni, segna l’ingresso degli editori nella fattura dei giornali, ed è il principio della fine dell’autonomia delle redazioni. Di questo si rendono conto tutti, editori inclusi: non a caso la Fieg, ma anche la federazione europea degli editori, contesta il ddl Alfano e ha perfino organizzato una storica protesta insieme al sindacato dei giornalisti quando pure Fieg e Fnsi litigavano ferocemente sul contratto.
E noi giornalisti intravediamo un rischio ulteriore: con queste norme gli editori non solo dovranno dire questo no, ma potranno pure dire questo invece sì. Perché potrà benissimo succedere che l’editore abbia un qualche interesse alla pubblicazione di una notizia anche vietata dalla legge, decida che valga la pena e paghi la sanzione amministrativa perché fa gioco ai suoi interessi. E allora uno degli effetti pratici di questa norma, per gli editori che potranno permetterselo, sarà la selezione degli atti da pubblicare. “Scusi editore, posso pubblicare questo? Faccia vedere, sì, va bene, pago”. Se la risposta è invece no e il giornalista pubblica lo stesso la notizia, rischia il licenziamento, perché la pubblicazione di notizie vietate diventa violazione dei protocolli interni ed è sotto gli occhi di tutti che può essere avviata la procedura del licenziamento per giusta causa.
Io voglio qui ricordare che nel nostro ordinamento nessuna responsabilità penale o amministrativa è prevista a carico dell’editore per i reati commessi a mezzo stampa. La sanzione a suo carico dunque altro non è che uno strumento di indebita pressione su un soggetto estraneo al reato per indurlo a interventi censori: dunque la norma è in palese violazione con il dettato costituzionale (la stampa non è soggetta ad autorizzazioni o censure).
Le ragioni che hanno ispirato il ddl Alfano sono pure condivisibili: impedire che persone estranee alle indagini o anche gli indagati nelle fasi iniziali delle indagini siano dati in pasto ai mass media attraverso la pubblicazione delle intercettazioni senza filtro.
Non è possibile infatti una selezione all’origine, il nostro sistema non consente neanche al pm di eliminare le conservazioni che ritenga irrilevanti perché i difensori potrebbero essere di parere contrario e chiederne la trascrizione.
Con le norme attuali interviene, dovrebbe intervenire, la deontologia dei giornalisti: si pubblicano solo notizie, non gossip, la cronaca giudiziaria è un servizio pubblico, non è, non può essere voyerismo. Errori in questa materia ne abbiamo commessi e li stiamo pagando cari perché vengono usati pretestuosamente. Ma su un punto mi voglio soffermare: il cronista di giudiziaria si occupa di processi. Ma se negli atti processuali trova notizie che non hanno rilievo penale ma hanno un rilievo sociale o politico, fa il lavoro che fanno gli altri suoi colleghi degli altri settori: pubblica quella notizia. Così se un’intercettazione svela il segreto di pulcinella delle attricette assunte per meriti sessuali, o del direttore di un quotidiano che baratta con un costruttore indagato indulgenza sul giornale con le vacanze gratis in Sardegna, o di un leader politico che fa il tifo per la scalata a una banca, di un discendente reale che pubblicamente si dice innamorato della Sardegna e in privato dice che i sardi puzzano, il giornalista pubblica quella notizia.
Invece il ddl Alfano tenta di vietare al giornalista di fare il suo lavoro : ricordo che il procuratore della Repubblica avrà l’obbligo di informare l’ordine professionale che deve procedere con la sospensione fino a tre mesi del giornalista che ha violato la legge.
E a questo proposito ricordo che la legge sull’Ordine riserva al giornalista incolpato trenta giorni per difendersi. Dunque le due norme sono in contrasto. Non si accorge che non serve a nulla vietare da noi quello è che lecito attorno a noi. Basti pensare alle foto di Zappadu sequestrate in Italia: le abbiamo viste sui siti web dei giornali stranieri. Faranno la stessa fine le intercettazioni: noi non le potremo pubblicare, lo faranno il Times, El Pais. Al tempo di internet è anacronistico vietare quello che altrove è possibile.
C’è un intento che appare punitivo nei confronti dei giornalisti. A questo proposito ricordo l’obbligo di pubblicare le rettifiche senza risposta. E non in caso di errore, perché lì sono dovute pure le scuse, ma tutte le volte che una persona si senta diffamata. Inutile dire che può sentirsi diffamata dalla pubblicazione di una notizia correttissima, ma io non potrò ribadire che tutto quello che ho scritto era corretto. Questo avviene perché il legislatore evidentemente non si fida dei giornalisti: il punto di partenza è che sbagliamo sempre, ma non sapete quanto sbaglia chi chiede la rettifica. Molte volte, non ha neanche letto il pezzo. A me è perfino arrivata una rettifica preventiva. Da un avvocato, ai sensi della legge, etc, di un pezzo che non avevo ancora scritto (chiamava rettifica l’articolo su una sentenza assolutoria che seguiva una richiesta di condanna) . Basterebbe una piccola modifica: sostituire chiunque si senta diffamato con chiunque sia stato diffamato. Così i giornalisti avrebbero l’obbligo di correggere gli errori ma non di pubblicare smentite a pezzi corretti (smentite che, tra l’altro, non mettono al riparo dalla successiva querela, ci fosse almeno quello!). E visto che ci sono, si potrebbe pure pensare a una norma che tuteli i giornalisti dalle querele per diffamazione a mezzo stampa prive di fondamento, regolarmente archiviate, senza poter agire in nessun modo contro chi li ha costretti a difendersi (non tutti i giornali pagano la parcella agli avvocati). E’ difficile infatti perseguire per calunnia chi ha fatto una querela per diffamazione perché bisogna provare il dolo, che è quasi sempre impossibile. Ma un correttivo lo si potrà pur trovare, io credo. Insomma, non sono sempre così cattivi questi giornalisti.
Anche alla luce del richiamo del Capo dello Stato vorrei sottolineare che i giornalisti non pubblicano solo gossip, come sento da più parti, e tutte le volte in cui chiedo “fammi un esempio” mi rispondono sempre con lo stesso: l’sms della Falchi al marito Ricucci (ti amo). Con tutto il rispetto, non mi sembra una grave violazione, ma è una violazione e d’accordo: abbiamo sbagliato. Detto questo, parlano della Falchi perché non conoscono altri casi. Perché non ci sono altri casi. O meglio: ho fatto una ricerca sul sito del garante, ha sanzionato anche il caso della figlia di Necci intercettata con Pacini Battaglia (1997). Basta. Non ho trovato altro. Sì, ci sono molti richiami all’essenzialità dell’informazione, ma casi concreti? Due.
Se distorsioni ci sono state si intervenga sulle persone che hanno sbagliato non sul sistema, altrimenti è come decidere di chiudere le sale operatorie dopo una morte sotto i ferri.