Salvacondotto per i potenti
DA DUE ANNI INCOMBE IL DDL ALFANO
di Romano Bartoloni
25 giugno 2010 - Continua da oltre due anni l’andirivieni fra i rami del Parlamento del disegno di legge Alfano sulle intercettazioni, rinominato liberticida perchè mette i bastoni fra le ruote delle inchieste giudiziarie e taglia le gambe alla cronaca e ai cronisti. Con il voto di fiducia chiesto e ottenuto al Senato dal Governo, il ddl il 10 giugno è tornato alla Camera, stabilendo una serie di record di pensamenti e ripensamenti, di masticature e rimasticature di commi e di sottocommi, di lacerazioni e di ricuciture. Nonostante il comune chiodo fisso di mettere ordine al sistema degli ascolti clandestini e di frenare le invasioni di campo della stampa, il ddl ha navigato a vista per undici mesi a Montecitorio e poi si è smarrito nei meandri di palazzo Madama per un anno e 15 giorni. E adesso rischia di perdersi nel nuovo braccio di ferro fra i tentennamenti e le divisioni dei deputati di una parte e dell’altra. Persino il Capo dello Stato ha dovuto dire la sua richiamando i principi della Costituzione.
Lo scontro politico si è andato arroventando sotto la pressione dell’opinione pubblica messa in allarme da campagne di stampa senza precedenti. Alle battaglie dei giornalisti, con i cronisti in prima fila, si sono uniti finalmente anche gli editori che hanno intuito i pericoli di un dissesto del regime editoriale, non soltanto a causa della minaccia di pesanti sanzioni.
Il cammino del ddl era e resta irto di ostacoli. Per salvarne comunque l’impianto, i legislatori, sia pro o contro il rebus delle intercettazioni, giocheranno le loro carte per non scontentare troppo i magistrati e per non inimicarsi troppo gli editori. Contro i cosiddetti eccessi dei giornalisti, che tali non sarebbero in altri Paesi occidentali dove si rispetta la libertà di stampa costi quello che costi, paiono invece tutti d’accordo.
Ne sono persuase le organizzazioni dei giornalisti che, nonostante l’aria di tregua estiva, non intendono abbassare la guardia. Manifestazioni di piazza, giornate di “silenzio rumoroso”, resistenza civile, progetti di appello alla Corte europea dei diritti dell’uomo, idee di referendum e di ricorso alla Corte costituzionale, notiziari di cronaca listati a lutto o con richiami da ultima spiaggia, e persino scioperi ricolmano la faretra delle frecce da scoccare per la difesa ad oltranza del diritto-dovere di cronaca e del diritto dei cittadini ad essere compiutamente e correttamente informati.
Ma è ormai tempo di svergognare davanti all’opinione pubblica le vere intenzioni della casta del potere, perché incombe l’ipoteca di scrivere una brutta pagina nella storia della democrazia e senza precedenti dai tempi del fascismo.
Dietro il pretesto della tutela della privacy, non dei cittadini bensì la loro, si nascondono i disegni di prevaricazione dei potenti: difendere i propri privilegi con una sorta di salvacondotto, imporre il silenzio totale sui fatti e sui misfatti della cronaca di tutti i giorni, mettere la sordina sull’intreccio fra politica e malaffare, tarpare le ali alla critica e alla mediazione giornalistica. Per chi ha gli occhi bene aperti, appare scontato che il provvedimento si riserva di assicurare una specie di immunità/impunità, benché, in democrazia, la rilevanza dei comportamenti non sia soltanto giuridica, ma anche politica, sociale ed etica.
Per uscire dagli equivoci e per restituire credibilità al disegno di legge, andrebbe rifatto da cima a fondo partendo dal presupposto che la tutela della privacy riguarda esclusivamente i cittadini, i cosiddetti cittadini comuni che vivono la vita di tutti i giorni lontano dal Palazzo. E il ddl sarebbe più convincente se escludesse dalla salvaguardia di legge gli atti riguardanti le cariche elettive di ogni livello e gli amministratori di società pubbliche o a partecipazione statale.
Le cronache sul potere costituiscono un osservatorio democratico sul funzionamento dello Stato e svelano i meccanismi del rispetto delle leggi e delle regole. Impedirle diventa censura e un atto incostituzionale contro l’art. 21 sulla libertà di stampa, secondo le valutazioni del Consiglio superiore della magistratura. In un documento del 12 febbraio 2004, il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ribadisce il diritto dei media di fornire anche informazioni sulla sfera privata dei politici “in quanto gettano luce sulle modalità con cui tali figure pubbliche svolgono le funzioni alle quali sono chiamate”. L’ex garante della privacy, l’autorevole Stefano Rodotà, ritiene che l’asticella della riservatezza deve essere più bassa per i politici, nel senso che essi “hanno una più ridotta aspettativa di privacy”. Il prof. Carlo Felice Grosso, penalista e ordinario di diritto penale, sostiene che “i fatti privati di quanti ricevono il consenso della gente devono essere conosciuti. Sapere chi frequenta e come vive chi ho votato è un mio diritto”. Nell’editoriale del 12 giugno sul “Corriere della Sera”, Ernesto Galli della Loggia si scaglia contro l’”opacità del potere”, arrivando a proclamare che l’intercettazione telefonica rompe finalmente “l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre” e finalmente “ i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata per lo più inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più”. A rincarare la dose ci si mette anche la Radio Vaticana nel ricordare che “chi accetta un ruolo importante deve rassegnarsi, per il bene della democrazia e della funzione di controllo, a vedere la propria privacy ridotta”.